Quaderni de Gli Argonauti N° 33

Quaderni de glli Argonauti N° 33 Giugno 2017

Quaderni de Gli Argonauti N° 33

QUADERNI DE GLI ARGONAUTI N° 33 – GIUGNO 2017

 

Prefazione

L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scopre il molto che non ha avuto e non avrà.
Calvino, Le Città Invisibili

 

Questa monografia raccoglie alcune significative riflessioni proposte durante il Convegno Internazionale III Guerra Mondiale? La gestione della morte tra le nuove emergenze sociali e la loro soluzione.

 

L’evento si inseriva tra le iniziative promosse e organizzate dal Master dell’Università di Padova Death Studies & the end of life di cui è fondatrice e direttrice Ines Testoni. In questa prefazione proponiamo una tra le molteplici linee di lettura e connessione evocate. Le analisi dei singoli autori, sfidando conoscenze competenze e disposizioni personali nel confronto con temi tanto drammatici, svelano le promesse implicite nell’inesauribile, infinita, domanda di senso che è sempre di fronte all’uomo.

L’illuminante saggio di Emanuele Severino, attraverso le riflessioni sulla tecnica, ci introduce al cruciale nucleo problematico del rapporto dell’uomo con la morte che appare origine di una narrazione oscillante, tra angosciato terrore e poiesis. Polifemo nell’Odissea è Thauma e indica “il mostro orrendo” che divora i compagni di Ulisse . L’incomprensibile subire provoca sgomento di fronte a paura e dolore, e genera la volontà di liberarsi e salvarsi dall’angoscia. Mito, religione, tragedia, poesia sono frutto della continua tensione di fronte al divenire che l’uomo tenta di controllare attraverso la tecnica. Il conflitto di ciascuna delle forze – capitalismo, comunismo, nazionalismi e anche la democrazia – per prevalere, servendosi della tecnica, disarticola scopo e mezzo. In questo processo, la tecnica diviene scopo e l’uomo – il suo benessere – “non è più fine, ma diviene mezzo per l’incremento della potenza della tecnica.”

Abbiamo bisogno di padroneggiare l’angoscia della morte e il senso di estraneazione di fronte all’impossibile esperienza del nostro morire, aggrappati alle rappresentazioni, e in fuga nelle tante forme del diniego. Vediamo la morte dell’altro e soffriamo nel vedere il suo volto cambiarsi e “raggelarsi in una cosa”. La morte dell’altro è vissuta come violazione e minaccia del senso di identità costituito da ricorrenze e prevedibilità. Ma, osserva Michel Bitbol

 

“L’”Io” (…) non è morto, dal momento che è ancora in grado di sentire il vuoto della perdita, e l’angoscia di un futuro insondabile.” Non spaventa “la mia morte già successa”, ma l’abisso incombente che non posso sperimentare né posso rappresentare. l’Individualità empirica e storica teme la morte che significa la sua scomparsa. Le diverse forme del diniego appaiono inefficaci contro l’angoscia della “dimenticanza di sé per sempre”.

 

I meccanismi del diniego possono perpetuare, anche, discriminazione e asservimento della donna. Come mette in evidenza Ines Testoni – considerando l’importante concetto di abiezione (Kristeva) -, per quanto possano esservi maggiori strumenti tecnici e conoscitivi vi sono ancora apparati persecutori e vittime colludenti. La coscienza del dolore potrebbe essere l’inizio del rimedio, mentre la rinuncia ad essa riduce la persona vittima e preda dell’inganno. Così, l’enfatizzazione della natura, riferita a una matrice metafisica che assolutizza la disposizione della donna all’amore, ha creato e continua a creare le condizioni della sua subalternità e della sua dipendenza. “Lo spazio di riflessione relativo a una politica in grado di non determinare oppressione rispetto a qualsiasi categoria umana viene chiamata “omnicrazia””.  Essa è intesa come parità di accesso “alle tecniche che permettono di vivere ed evolvere nel modo migliore senza dover sacrificare se stessi”. Un nuovo ordine genitoriale separa i figli dall’assoggettamento della natura: la coscienza del dolore può emendare l’abiezione e trasmutare il disgusto in difesa e baluardo contro la violenza omicida, in affermazione del valore e della dignità della persona.

L’estrema complessa drammaticità delle condizioni vissute dai rifugiati in fuga da persecuzioni, genocidi, torture, traumi di guerra e perdite (di dignità personale, ruoli sociali, beni materiali), come emerge dalla ricerca di Diego De Leo sul comportamento suicidario, ostacola il processo di emendazione dell’abiezione. Condizioni di disturbo post-traumatico esacerbano i vissuti di insignificanza, impotenza,  umiliazione. La stessa “procedura di richiesta dello stato di rifugiato viene descritta come la più importante fonte di stress.” Accade che il comportamento suicidario venga attuato anche prima del rifiuto di una domanda di asilo. Le persone si sentono intrappolate e vedono negli eventi significati di sconfitta, o di mancanza di alternative. Drammaticamente, i rifugiati che avevano subito torture scelgono di togliersi la vita usando il metodo con cui erano stati torturati. Il subire, persecuzioni e umiliazioni viene trasformato in azione tragica contro l’unica vittima soccombente – il proprio corpo. Come se il ribaltamento del “disgusto” si possa attuare soltanto contro se stessi. L’unica via per ristorare i lutti e uscire dall’insignificanza, dalla sottomissione e dal subire, è l’”odio di sé”. Il suicidio è il tragico ultimo atto di ribellione.

Uno dei fattori di rischio rilevati nella ricerca è la giovane età. I minori stranieri non accompagnati, scrive Fiorenza Milano, sono alle prese con viaggi che condensano cruciali e drammatiche trasformazioni. Gli spostamenti nello spazio, verso il luogo da cui ci si aspetta ristoro e rinnovamento, avvengono in un tempo vissuto che coinvolge essenziali passaggi evolutivi. La rappresentazione di sé come capace di avventura, si deve confrontare, alla fine del viaggio, con l’esperienza di inappartenenza, di sradicamento e di forzata marginalità.
I viaggi migratori dei minori si possono configurare come iniziazioni sostitutive, in cui viene, però, a mancare la comunità depositaria dei riti a cui promettere e che promette (Buber), attraverso il rito consolidato; rito che accoglie e contiene i drammatici passaggi attraverso la morte simbolica – e la successiva rinascita. Inoltre, la concretezza inesorabile del viaggio, eliminando le potenzialità del simbolico può svuotare le possibilità maturative dell’iniziazione e reificare la morte.

Anche i viaggi di ri-sepoltura di importanti figure della storia magiara, narrati da Amedeo Boros, ci propongono una reificazione della morte e dei riti. Le caste al potere rispondendo al bisogno di riappropiazione della storia offrono una meticolosa teatralizzazione della re-incorporazione identitaria. I corpi precedentemente delocalizzati al fine di nascondere umiliare le memorie ed espellere violentemente le ideologie che simbolicamente rappresentavano, vengono rilocalizzati con un rito funerario precedentemente negato. I resti incorporano, nuovi significati da offrire alla moltitudine degli Ungheresi che anelano alla possibilità di ricostruire memorie e tessuto culturale della propria storia. Ma le cose cambiano e viene meno l’utilità dei morti nel sostegno ai nuovi “gestori del potere”. I martiri “oggi potrebbero diventare vittime di un ennesimo rito di margine agito dai nuovi amministratori della cultura magiara.”: il potere continuerà ad usare morti e memorie, continuerà a riciclare simboli ed emozioni per nutrire se stesso.

Per quanto illuminanti e capaci di penetrare la complessità, anche le interpretazioni e le ricostruzioni storico-scientifiche si mostrano seducibili alle comparazioni semplificatorie che rischiano di sacrificare le dimensioni più intime della vita. Andrea Toniolo, osserva che correnti di pensiero identificano la religione con “l’errore e l’orrore della vicenda umana, la vera causa della violenza tra i popoli, che diviene capro espiatorio”; si nascondono, così, le responsabilità dell’uomo. La storia è intessuta di tragedie legate alla religione. Ma l’analisi delle complesse vicissitudini mostra che la violenza religiosa è causata dai legami con il potere. La religione è un tema molto sensibile e potente, proprio perché strettamente connesso con le radici dell’identità culturale di singoli e popoli. Argomento buono, quindi, per chi voglia semplificare, contrapporre e trarre vantaggio per scopi egemonici. Si nasconde, così, che la natura personale del Dio delle religioni abramitiche, che entra in relazione gratuitamente con l’uomo, ha avuto anche valore di riscatto e di affermazione della dignità della persona.
Il bisogno di forti radicamenti identitari spinge ad abbracciare credo, idee, ideologie indipendentemente dal loro valore. Anzi, ciclicamente nella storia dei popoli, tendono a imporsi ideologie e credenze la cui forza di attrazione è proporzionale alla semplificazione. Scienza, tecnica, idee e religioni – soprattutto la libertà della persona – divengono, di volta in volta, capro espiatorio offerto dalle caste dominanti alla sete insaziabile del, semplicisticamente contorto, potere degli obbedienti.

Così il “falò personale” del terrorista può essere seducente per le sue vittime potenziali. E’ “l’immagine di una conflagrazione generale”, scrive Adone Brandalise, che indica  “un corto circuito tra una totale assenza di spiegazioni e una spiegazione paradossale che in qualche modo soddisfa tutte le domande. Una sorta di buco nero che diventa la risposta a tutto senza essere una risposta a nulla.” E’ un’illusione di trionfo contro la sostanziale obsolescenza dei paradigmi che mette a nudo insufficienza e incompetenza. Paradossalmente, la rapidità dei mutamenti che ci destabilizzano è frutto, anche, della pretesa/illusione di dominare e controllare il divenire, di possedere grammatica e sintassi di una corrispondenza tra cose e parole che sia definitiva. Si impone, così l’immagine della morte come certezza di onnipotenza distruttiva sottratta a verifiche. “Non a caso dove la produzione di forma collassa, in un certo senso, la morte è presente come grande pathos isterico che sceneggia il disordine. (…) la morte rischia di diventare la figura che, simbolicamente ma anche molto concretamente, minaccia di essere la vera risposta”.
L’immagine di Polifemo divoratore evoca la progressiva erosione dello spazio del pensiero, inesorabilmente assottigliato dalla smania del possesso immediato. Proprio la visione monoculare che semplifica, appiattisce e toglie profondità, mano a mano, annulla la percezione di un’intimità articolata, come luogo in cui le conversazioni intra e intersoggettive costruiscono mondi e possibilità.

Loretta Zorzi Meneguzzo mostra come la frenesia del possesso faccia svaporare la rappresentazione di sé come capace di contenere la tensione potenzialmente creativa del continuo rapporto con l’inatteso che viene. Le vite sembrano precipitare a valanga, nelle confusioni/indistinzioni e nelle inappartenenze dell’istantaneità che, in un circolo vizioso, reclama insaziabilmente certezze e solide appartenenze. Possiamo considerare il Disturbo da Attacchi di Panico come la condizione nella quale è ancora possibile accogliere il riverbero – l’estremo appello – del dolore, dell’angoscia di morte imminente, la cui “coscienza” potrebbe avviare l’emendazione. L’urlo panico, interpella coloro che soffrono e li costringe a sentire, a prendersi cura del loro possibile progettarsi, anche nel vuoto, nell’ascolto del silenzio. Invece, le dinamiche della guerra, “costruiscono, concretamente, il nemico che rassicura e potenzia, di fronte alla paura della morte, a costo della vita”. La cieca proiezione nella realtà concreta del campo di battaglia immola creatività, pensiero e sacralità della persona.
La presente esplorazione interdisciplinare delle dimensioni della morte e della guerra smuove e riconfigura costellazioni di relazioni fra paure e conflitti che, inesauribilmente, svelano l’uomo a sestesso. Severino scrive:

l’”universalismo” tecnico “… determina un mutamento nella configurazione del nemico e della guerra. I nuovi nemici sono le forme storiche destinate a condurre oltre il tempo della stessa dominazione della tecnica – giacché nemmeno questa dominazione ha l’ultima parola. Anzi, l’inizio dell’ultima parola (che peraltro è una parola infinita) incomincia a questo punto.”

 


[1] Padova 3-4-5 Novembre 2016, organizzato dal Dipartimento FISPPA dell’Università di Padova. – http://endlife.psy.unipd.it/IIIWW/it/index.php/2016/02/06/wwiii/.

[1] Severino E. Prefazione a Metafisica Aristotele


I curatori

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